Era davvero necessario inventarsi la parola “mammo”?
È diventato purtroppo un termine fin troppo diffuso, seppur, non riconosciuto realmente dalla nostra lingua, la parola “mammo” si riferisce comunemente a un uomo, che si prende cura dei propri figli e spesso (apriti cielo) anche della dimensione domestica. Un usurpatore di quello, che, socialmente, era riconosciuto come unico regno della parte femminile della famiglia. La società cambia, ma la realtà nella pratica si modifica più lentamente della teoria.
Così, nonostante i passi avanti fatti per riconoscere la presenza delle donne nel mondo esterno alle mura domestiche, legittimare l’esistenza del maschile attivo all’interno della dimensione casalinga riscontra ancora qualche difficoltà.
È per questo, che a chi sembra normale occuparsi in maniera concreta dei propri figli viene spesso affibbiato il nomignolo di “mammo”. Lontano da essere il riconoscimento di un impegno attivo da parte dei padri nella crescita dei propri figli, la mascolinizzazione di un sostantivo prettamente femminile, vuole al contrario sminuirne la necessità, metterne in dubbio la virilità, cercando di dare un nome a qualcosa che un nome l’ha sempre avuto: figura paterna.
Il termine di per sé ha lo scopo abbastanza evidente di rimarcare un primato materno e quindi, di sottolineare la scarsa attinenza al ruolo maschile di certi comportamenti, ma quello che fa in realtà è sminuire il ruolo del padre. Considerare le pratiche, che servono per il benessere e la sopravvivenza dei propri figli esclusivo appannaggio materno relega il padre a un ruolo marginale, se non superfluo, sminuisce l’importanza degli uomini come figure di riferimento per i propri figli, attribuendo a questo una minaccia alla loro virilità.
Come se l’unico territorio di competenza paterna nella dimensione genitoriale fosse il solo concepimento, come se la sopravvivenza, la dimensione emotiva ed affettiva, i comportamenti di protezione e cura, l’educazione dei bambini non fossero di loro interesse.
Legittimare la posizione periferica dei padri nella relazione genitoriale e nell’alleanza con la partner, non solo svilisce di fatto le emozioni e le competenze di ogni uomo nel proprio rapporto con i figli, ma contribuisce a sostenere una pericolosa frattura all’interno della coppia genitoriale. Da una parte madri, che si sentono spesso sovra responsabilizzate rispetto alle necessità dei propri bambini, obbligate a dover gestire tutto da sole, deprivate del tempo per loro stesse; dall’altra padri sminuiti, emarginati, esclusi, a cui viene vietato di sperimentare un percorso di conoscenza e comprensione insieme ai loro figli, necessario a costruire con loro una relazione funzionale.
Sostenere, spesso inconsapevolmente, questa rigida divisione di compiti e competenze non giova a nessuno. Ciò che va rivoluzionato è l’immagine di padre al fine che non sia più necessario coniare un (orribile) nuovo sostantivo per definirlo.
Il coinvolgimento paterno è fondamentale anche per il padre stesso quando la paternità è vissuta in modo affettivo, autorevole, consapevole e responsabile migliora i padri come uomini e come individui. Aprirsi alla relazione con i propri figli, lasciarsi coinvolgere permette di essere emozionalmente più disponibili, mentalmente più aperti, più flessibili in scelte e giudizi e in linea di massima più sereni nella vita.
Parallelamente anche la relazione con la partner, alleggerita di una responsabilità che non pensava di poter condividere, ne trarrà beneficio ed inizierà a svilupparsi in un nuovo territorio: quello dell’alleanza genitoriale.